Il dibattito politico-culturale a Mosca, l'edificazione di un'identità nazionale condivisa e il rilancio del soft power russo

Lo scorso 30 ottobre l’Istituto Russo per le Ricerche Strategiche di Mosca ha organizzato la conferenza “La Russia e il Mondo allo scoppio della Prima guerra mondiale”. Alla conferenza ha
partecipato una delegazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, per presentare i primi risultati di un lavoro di ricerca ancora in corso sotto la direzione del Prorettore Vicario dell’Ateneo Prof. Antonello Folco Biagini.
Nel corso dei lavori è emerso un vivace dibattito storiografico sulle origini della Prima guerra mondiale e sul ruolo svolto dalla Russia rispetto al tramonto dell’equilibrio di potenza europeo del XIX secolo. Rispecchiando una frattura presente anche nella scena politica e nella società russa, i
relatori si sono divisi tra i sostenitori della formula politica dell’élite zarista (ortodossia, monarchia, nazione), che si diffuse nell’Ottocento come risposta alla rivolta decabrista del 1825, e coloro che, al contrario, concordano con la chiave di lettura di questi eventi offerta dagli storici d’epoca sovietica.
I primi sostengono la tesi per cui la Russia zarista non disponeva di piani strategici offensivi particolarmente avanzati alla vigilia della guerra e che con l’avvento dei bolscevichi l’esercito russo si sarebbe ritirato dai combattimenti nel momento in cui avrebbe potuto cogliere i frutti dei sacrifici sopportati negli anni precedenti. In questa prospettiva hanno proposto di ribattezzare la Grande guerra come “Seconda guerra patriottica”, in quanto dovrebbe essere posta in linea di continuità con la “Prima guerra patriotica” combattuta contro le truppe napoleoniche nel 1812 e la “Grande guerra patriotica” condotta contro la Wehrmacht tra il 1941 e il 1945.
A far da contraltare a questa posizione è stato un altrettanto nutrito gruppo di intellettuali vicini alla prospettiva della storiografia sovietica che hanno insistito sull’idea che la Russia di Nicola II progettava da tempo il suo impegno in una guerra generale e che il trattato di Brest-Litovsk venne sottoscritto nel momento culminante per le tragedie direttamente o indirettamente causate da una guerra mal pianificata e altrettanto mal condotta (rotta dell’esercito, carestie, instabilità politica, ecc…). Rispetto a tale confronto il rappresentante del presidente della Federazione Russa non ha appoggiato apertamente né l’una, né l’altra posizione, sottolineando gli elementi veritieri insiti sia nell’una, che nell’altra riflessione.
Dopo il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, la Federazione Russa - che ne ha raccolto l’eredità politica - si è trovata alle prese con due questioni aperte di carattere politico-culturale: 1) costruire un nuovo senso d’identità nazionale, per arginare la frantumazione del nuovo Stato che si era prontamente verificata con l’indipendenza degli Stati del Baltico, del Caucaso e dell’Asia centrale; 2) trovare una nuova fonte di legittimazione per l’azione politica interna e internazionale dello Stato neo-nato. La risposta a tale esigenza, comune a numerosi Stati multietnici e multilinguistici, è stata più farraginosa in Russia, a causa del ciclico emergere, in corrispondenza dei turning point della vita nazionale, della volontà di nemesi politica e della complementare necessità di rimuovere le costruzioni socio-istituzionali ereditate dal passato.
Se nel corso dell’era Eltsin non si era giunti ad una conclusione e lo scontro tra élite anti-sovietiche e filo-sovietiche aveva polarizzato il dibattito culturale e politico a favore delle prime, durante le presidenze di Putin e Medvedev si è proceduto alla complessa operazione di recupero dell’intero bagaglio storico che ha preceduto l’attuale corso di Mosca, declinato all’interno di una formula politica che si potrebbe definire “sincretica”.
Il primo elemento della nuova “ideologia” è l’identità cristiano-ortodossa e il legame tra il Cremlino e il patriarcato di Mosca. La chiesa ortodossa ha tradizionalmente garantito una sorta di legame spirituale del popolo con lo Stato, che si estendeva su territori enormi e che - dai tempi della Rus’ di Kiev fino all’Impero zarista di Nicola II - aveva rafforzato il senso di appartenenza nazionale.
Ma non bisogna dimenticare che, sebbene sotto forme più discontinue e meno ufficiali, tale rapporto era rimasto vivo anche durante il periodo comunista svolgendo una funzione determinante per la salvaguardia dello Stato in alcuni momenti cruciali, in particolare nel corso della Seconda guerra mondiale. Il secondo elemento è il passato sovietico, che continua tuttora a influenzare la vita quotidiana in Russia e fa parte della memoria storica di una fetta consistente della popolazione. La nostalgia per il passato sovietico, che già negli anni Novanta serpeggiava tra le generazioni più avanti negli anni, si è cominciata a diffondere anche tra i più giovani, che tendono a idealizzarne l’immagine utilizzando l’apparato simbolico-ideologico comunista e le suggestioni ad esso legate nelle rivendicazioni movimentiste e nella creazione di nuove sub-culture (una tendenza presente anche in Europa occidentale nella forma della cosiddetta Ostalgie).
L’opera di nation-building e di elaborazione di un nuovo soft power restano comunque un processo ancora in corso e non privo di contraddizioni. Sebbene le autorità politiche russe stiano alimentando nelle sedi istituzionali il dibattito su questo tema, di sovente si trovano costrette a dover mediare tra i partecipanti ad un dibattito serrato nella comunità scientifica e accademica. Ma le posizioni emerse sono solo apparentemente inconciliabili, trovando il loro minimo comun denominatore nella volontà di potenza della Russia e in uno spiccato nazionalismo. La tensione di questi dibattiti, quindi, svolge la funzione positiva di esasperare la diversità degli approcci per evidenziare alla fine la presenza di elementi comuni che costituiscono il nuovo universo valoriale dello Stato. 
 
 
di Gabriele Natalizia e Diana Shendrikova